Virginia Fagini

Testimonianze

Mario Beccari

Virginia

Nelle riunioni a casa di Virginia gli amici amavano sciamare liberamente nelle stanze e nel giardino. Virginia era solita sedersi, con naturale eleganza, su un cuscino in salotto, circondata dai suoi quadri (così misteriosamente problematici, eppure così progettuali). Chiacchierava ora con l’uno ora con l’altro dei suoi amici, come capitava. Virginia più che parlare, ascoltava; ma noi tutti avvertivamo la centralità della sua presenza, pur così leggera e riservata.
Virginia seppe conservare la stessa sobrietà anche nell’ultima riunione, poche settimane prima della morte. Eravamo tutti in salotto a rivedere, su sua richiesta, un film, “Il settimo sigillo”. Lei era in una posizione un po’ defilata, attenta a noi, attenta al film, ma come avvolta in un’atmosfera rarefatta, come cristallizzata.
Noi ci sentivamo diversi, quella sera. Avvertivamo dentro di noi una rigidità insopprimibile e i nostri occhi interrogavano quasi ossessivamente le immagini del film che lentamente evolvevano verso l’ineludibile domanda alla quale il Cavaliere e lo Scudiero alla fine davano risposte drammaticamente contrapposte: dentro al mistero della vita e della morte si nasconde un progetto?

Dicembre 2010

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Franca Bernardi

L’immagine di Virginia di quando eravamo a scuola mi è tornata alla memoria quando ho visto le sue fotografie. Lei era silenziosissima, con occhi seri e attenti, ma non passava inosservata: la sua compostezza e la sua bellezza erano evidenti. Botticelli l’aveva pensata.
Se ne erano accorti anche alla sezione di fotografia, che era dall’altra parte del fabbricato e venivano sempre a prenderla per farla posare alle lezioni di ritratto. Era ubbidiente e la sua tranquillità le permetteva di stare ferma tanto tempo.
Ci siamo conosciute veramente “da grandi”. L’incontro avvenne durante qualche cena che qualcuno di noi organizzava, un po’ per curiosità un po’ per tenerezza verso un’adolescenza comune. Ancora ci vediamo, pigramente affezionati e mi sono chiesta come mai abbiamo conservato questo bisogno negli anni. Il vero motivo mi sembra essere l’aver ricevuto gli stessi stimoli durante la crescita fisica e intellettuale, all’ombra, anzi alla luce dei grandi maestri dell’avanguardia romana che incontrammo all’Istituto d’Arte.
Ce la ritrovammo bellissima, gentile e severa, schiva, non amava parlare di sé.
I maschietti trattenevano le impertinenze e si innamorarono tutti di lei.
Silvia Bellini, con la sua generosa e ironica intelligenza, ci invitò ad esporre a Villa Marignoli. Enrico Gallian scrisse una sarcastica e affettuosa presentazione, come solo lui poteva fare; Gioia Tappa si occupò della grafica perché era proprio all’apice del suo lavoro, e noi tutti ci ritrovammo. Fu subito chiaro che Bruno Lisi era il più bravo secondo me, con Enrico Gallian. Bruno Fiore/i e Roberto Romano portarono due paesaggi strepitosi. Lauretta Francisci e Silvia Bellini si contendevano leggerezza ed ironia e non da meno Maghi Spani.
Virginia ed io ci riconoscemmo (sullo stesso cammino), molto diverse l’una dall’altra, ma con lo stesso lessico.
Fu una felice scoperta, si consolidò una forte solidarietà assolutamente onesta, diventammo un sostegno e una garanzia l’una per l’altra. Finalmente potevamo manifestare i nostri dubbi e le nostre perplessità senza pudore, con la certezza che alla fine dell’analisi l’indicazione sarebbe stata quella giusta e l’entusiasmo rinnovato. Furono anni preziosi, (ancora) rimpianti.
Scoprii con grande ammirazione la disciplina che era alla base del suo lavoro, la stessa che le permetteva una così grande capacità di produrre.
Virginia possedeva un’altra grande dote: la fermezza.
Era consapevole della ricerca che le stava a cuore, della poesia che possedeva e che doveva utilizzare.
Il desiderio di conoscere le nuove forme d’arte era aperto, senza pregiudizi, pronto a crescere e il suo pensiero, come la sua pennellata era limpido, coraggioso, senza incertezze.
Sapeva cosa assimilare e cosa scartare, non temeva contaminazioni.
Una gioia sommersa e soddisfatta emergeva sul suo viso quando all’uscita da una mostra condivideva lo stimolo ricevuto. Se non era in accordo non diceva niente ma, se sollecitata, inarcava leggermente un sopracciglio, lo sguardo diventava distaccato e con glaciale soavità diceva: “non mi riguarda” e io sentivo un brivido corrermi per la schiena.

Febbraio 2011

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Edith Bruck

Virginia l’amica

Il nostro primo appuntamento avvenne dopo diversi anni persi nel guardarci come due innamorate timide che hanno un’affinità inespressa da custodire, come se le parole abusate potessero nuocerle.
In lei una bellezza pura, delicata come difesa anche dall’aria e dagli sguardi inquinanti. In me un dolore pietrificato che si chiama Auschwitz, luogo che non le nominai mai per non deturpare il suo volto dolce con la pece, la peste nera che ha saputo dai miei libri e, con la sua sensibilità di pittrice e di donna diversamente ferita, non ha mai evocato neanche lei.
La mia personale lettura dei suoi quadri, pur nel loro astrattismo, intravede dei buchi neri, nastri di lutto stesi verso l’ignoto, macchie di colori in un universo scomposto che tende all’oscuro. Guardando i suoi lavori da persona attaccata al reale al classico, mi ha sempre colpito quella selva nera quasi ultraterrena in alcune delle sue opere che abitavano in lei tutta luce; inquilini ignoti a lei stessa dolce e luminosa come una stella da lontano e da vicino. Creatura estremamente discreta e poco adatta a un mondo che spesso distrugge la bellezza per renderla più simile a sé stesso.

Dicembre 2010

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Fiorella Corsi

Virginia

Come ci conoscemmo non lo ricordo bene. Doveva essere la fine degli anni Novanta, perché stavo preparando la mostra “Il Naso” per la Fondazione Collodi, avvenuta nel 2000 e Virginia mi chiese di visitare il mio piccolo studio, che avevo in Borgo Vittorio. Quando lavoro per un nuovo progetto, preferisco la solitudine, ma non feci resistenza, perché ero rimasta affascinata dal modo discreto ed elegante della donna bellissima che era.
Da quel momento cominciammo a frequentarci. Le nostre uscite di solito avevano come programma la visione di un nuovo film in programmazione, o una cena in casa con amici. A Virginia piaceva molto ricevere e le serate spesso finivano con la proiezione di un film classico registrato in VHS, come si usava a quei tempi.
In una delle ultime, organizzate da lei, senza consultarci ci fece vedere Il Settimo Sigillo di Bergman. Alla fine della proiezione seguì il silenzio. Fu un modo di confidarci la sua ansia e il coraggio con cui stava lottando.
Era una donna schiva, capace di comunicare con lo sguardo ed un sorriso che in alcuni momenti si velava di malinconia, ma poteva diventare ironico e divertito quando ascoltava le discussioni che si accendevano tra amici, dalle quali preferiva astenersi.
Del suo lavoro non parlava mai, se non per condividere con gli artisti la frustrazione per un’attività che spesso si svolge in totale emarginazione. Ma lei sorrideva con la superiorità di chi ha trovato delle certezze, e le sue erano nel fare.
Lavorava ogni giorno nel suo studiolo ordinato e pulito con il materiale accuratamente sistemato in appositi spazi, dove ogni arnese aveva un suo posto ragionato. Ricordo le righe, i pennelli ed altro, attaccati alle pareti in ordine di grandezza, il tavolo sempre pulito e pronto.
Forse l’interesse reciproco dipendeva proprio dalle nostre differenti personalità. Quando andavo a trovarla, soprattutto negli ultimi tempi, osservavo i quadri appesi in salotto e nel rigore del segno, pulito e severo, vedevo tutta la sua determinazione nell’affrontare la vita. Niente era lasciato al caso.
Un pomeriggio mi invitò per mostrarmi i suoi ultimi lavori su carta, voleva una mia opinione. Erano disegni a carboncino e pastelli ad olio. Il colore predominante, come per i quadri, era il nero: pennellate decise che spesso occupavano tutta la superficie, dal cui reticolo a volte si intravedeva la luce. Aveva usato tracce di colori puri. Mi ricordo il rosso e il blu.
Mi piacquero molto e glielo dissi. Era come se il segno, tanto severo, si fosse ammorbidito e assumesse una forma. La sua pittura stava cambiando. Erano opere molto raffinate. Credo appartengano alla sua ultima produzione.

Gennaio 2010

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Gilda Leoni

Le mostre che visitavamo insieme ridavano energia al nostro, al suo lavoro.
I Giacometti ieratici al Kunstmuseum di Basilea e la mostra di sculture di Cy Twombly, quasi prive di gravità, bianche, uno spazio riempito di luce e pieno di associazioni poetiche.
Come i suoi quadri, un equilibrio perfetto di segni.
Il silenzio della Fondazione Beyeler dopo la folla dell’ArtBasel, il giardino, lo stagno e nelle sale a fare da contrappunto Le Ninfee di Monet, la foto sotto l’enorme scultura di Calder.
La curiosità di incontri casuali e inaspettati come quello a Ginevra con l’artista cinese Franklin Chow (Qiu Daxiong), i cui quadri, visti attraverso una vetrina, ci avevano spinto a chiedere chi ne fosse l’autore e mezz’ora dopo eravamo nel suo studio, circondate da inchiostri, tele ed enormi pennelli cinesi.
Ancora segni nervosi su campiture serene. Il suono discreto della pittura di Virginia.

Gennaio 2011

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Marina Ligato (11 anni)

Di solito i segni veloci esprimono rabbia ma in questi quadri ho trovato la felicità e la concentrazione di un’artista in gamba.
Per quanto riguarda i colori, sono rimasta sorpresa per il modo di abbinare il nero con i vari colori, dandogli così, non un ruolo triste e cupo, ma un ruolo magico. Ed era quello che ci voleva.
Complimentissimi hai saputo scrivere una storia di colori emozionante, piena di avventure e personaggi diversi.

19 marzo 2011

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Alba Savoi

Cara Valeria,
pensare a Virginia è per me un “doloroso piacere”, perdona il paradosso ma è ciò che provo.
La ricordo allegra e felice in una trattoria di Barcellona, un giovane spagnolo cantò per noi “Alle belle Romane” al plurale, ma era comunque stregato da lei, la bionda.
E il viaggio veloce a Torino, per vedere la mostra di Afro ed altri spazi d’arte interessanti.
L’altro viaggio a Berlino, per me doloroso. Il giorno precedente alla partenza mi ruppi il polso sinistro; non volevo rinunciare e partii con un’ingessatura pesante al braccio. Il giro dei musei che avevamo programmato fu molto faticoso. L’amica Virginia, con la sua sensibilità, mi aiutò adeguando i propri tempi ai miei.
Ricordo ancora le lunghe conversazioni sulla nostra vita di donne artiste, come sempre impegnate sui due fronti: la famiglia e l’arte.
Virginia, nella sua arte era molto rigorosa, i suoi segni erano inconfondibili, eleganti, armoniosi e affascinanti, pur se a volte suscitavano in me inquietudini inspiegabili: quel cuneo drammatico che penetrava e lacerava…
Molti momenti felici che male si conciliano con gli altri, dolorosi, della sua malattia e della sua prematura scomparsa.
Mi fa male ricordarla sofferente.
Spero che la sua energia vitale sia ancora tra noi e, con il nostro ricordo, brilli con forza maggiore.
Nel bel sito a lei dedicato, le opere che scorrono hanno un fascino notevole, naturalmente nella realtà sono più belle, degne di spazi più ampi come Musei e Pinacoteche.
Un abbraccio dall’amica sincera di Virginia.

Ottobre 2010

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Turi Sottile

A Virginia
Entro in punta di piedi per non disturbare il silenzio-fragore che emana dalla tue opere e che mi porta al periodo in cui dissertavamo sull’evoluzione del segno, a quando mi chiamavi scherzosamente e con affetto “Turaccio-Pittoraccio” per la differenza che c’era tra il tuo segno silenzioso, rarefatto, contrapposto al mio rumoroso e dionisiaco, e a quando la cosiddetta “critica militante”, forse frettolosa e distratta, non si accorgeva che qualcosa stavamo cambiando.
Ora sono felice di ritrovarti in questa tua stupenda mostra che dà il senso della tua storia artistica personale, che dà il senso delle tue idee depositate sulle tele.
Brava Virginia, ti abbraccio forte con un arrivederci.
A presto

Marzo 2011

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